Ricomincio da Marte
Pubblicato come Io, primo uomo su Marte. In un viaggio senza ritorno da “L’Espresso” numero 34, del 15 agosto 2020.
Immagini del fotografo e artista James Porto
Di PAOLO NESPOLI
Zzzz…. un ronzio.
Zzz… zzz… Certo, è il ronzio del sistema di mantenimento della vita, sempre in funzione. I suoi progettisti hanno fatto di tutto per limitarne gli effetti indesiderati come, appunto, il rumore. Non posso dire non ce l’abbiano fatta: il sistema funziona alla perfezione e il rumore che produce è appena percepibile.
Il fatto è che, nel silenzio della notte, quel piccolo rumore, quel bisbiglio, piano piano si insinua inesorabile nel cervello, che lo amplifica fino a farlo diventare assordante. Col tempo hoimparato a tollerarlo: in fondo quello del sistema di mantenimento della vita è un suono necessario, addirittura la conferma che tutto sia a posto. Non può interrompersi.
Zzz…
Apro gli occhi, ma non vedo niente. Sono al buio, sdraiato e a fatica distinguo le foto appese al soffitto della cuccetta, 50 centimetri sopra di me. Ormai ci ho fatto l’abitudine e contrariamente a quello che succedeva appena arrivato, so giàdove sono: nella mia mini-cuccetta alla base marziana IMH, l’International Mars Habitat.
Lassù, appeso al soffitto, proprio accanto alle foto, c’è anche lo schermo touch del mio un computer: se lo sfiorassi si accenderebbe come un albero di Natale per indicarmi tutti i parametri importanti del mio abitacolo e della base. Potrei anche chiamarlo per nome e risponderebbe. A dire il vero dovrei dire “chiamarla per nome”, visto che l’ho battezzata Sasha, come mia moglie (anche se al momento di configurarla ho dovuto specificare il genere, perché Sasha, in russo, è sia maschile che femminile). Se chiedessi “Sasha che ore sono?”, si attiverebbe e mi risponderebbe con un tono dolce e pacato, regolato sulle frequenze più gradevoli al mio orecchio. Piccole cose studiate per smorzare l’isolamento cui siamo costretti.
A proposito, non ho mai capito perché su Marte, a decine di milioni di chilometri da casa, abbiamo scelto di regolarci con l’ora del meridiano di Greenwich in Inghilterra. Immagino che un’ora la dovessimo pur scegliere e quella dev’essere sembrata la più “neutrale”. Comunque, come in ogni giornata standard, la sveglia è puntata alle 06:00 GMT/UTC. Normalmente sarebbe Sasha a svegliarmi con tutta la dolcezza per cui è stata programmata, con il suo buongiorno, una luce soffusa e una canzone, la più adatta ai miei bioritmi, in sottofondo. Siccome Sasha non si è ancora fatta sentire, sono certo non siano ancora le 06:00. Al buio, è difficile dirlo.
Mi capita sempre più spesso di aprire gli occhi prima della sveglia, una cosa non normale per me. Ho dormito dovunque, comunque e abbondantemente, mai meno di otto ore. Qui, invece, cinque è la mia nuova norma; sei, il record personale. Nella mia vita ho spesso desiderato dormire di meno per poter avere più tempo disponibile per altro. Il problema è che ora, dormendo così poco, mi sento più stanco del normale e sono meno efficiente. Ho più tempo, ma rendo la metà. So che se toccassi lo schermo o se mi mettessi a parlare con Sasha, il monitor si illuminerebbe e per quanto sia uno di quelli con lo schermo avanzato che taglia pesantemente la luce blu, una volta iniziato a leggere le notizie, la posta e tutti gli altri messaggi, tornare a dormire sarebbe difficile: quando il cervello si accende non mi è più possibile spegnerlo. Lo so per esperienza, perché nei giorni scorsi mi è successo più di una volta.
E anche oggi, sebbene rimanga sdraiato senza muovermi, capita lo stesso: il cervello si accende con una domanda che torna a farmi visita prepotentemente, come se il pensiero, appena trovato un pertugio, non potesse evitare di buttarcisi dentro: “ho fatto bene ad accettare questa missione?”.
Ricordo ancora lo stupore di quando avevo letto che cercavano volontari per il primo viaggio su Marte. “Una missione speciale” diceva l’annuncio: portare il primo gruppo di umani sulla superficie del Pianeta Rosso. L’idea mi era piaciuta subito: sono un ingegnere e ho un’inclinazione tecnica piuttosto spiccata, una sorta di intuito che mi permette di capire le macchine al volo, quasi di dialogarci, e la prospettiva di diventare un esploratore mi ha sempre esaltato.
Ero andato sul sito web che promuoveva la spedizione e avevo letto tutto quello che c’era da leggere. Non molto a dire la verità; si arrivava velocemente all’ultima pagina, che conteneva il modulo di richiesta per essere inclusi nell’equipaggio. “Che bello!”, avevo pensato, e senza darci molto peso avevo riempito le poche caselle e premuto invio.
La sorpresa era arrivata il giorno dopo: una mail mi informava di aver superato la selezione iniziale. Il numero dei candidati ammissibili, al momento di 2700 persone, sarebbe stato ridotto a 100, quelli che effettivamente sarebbero stati addestrati. Tra questi, da quattro a dieci sarebbero diventati marziani.
L’email finiva chiedendo di leggere, controfirmare e rimandare entro 72 ore un documento allegato: una decina di pagine scritte fitte. Avevo cominciato a scorrerle con attenzione, ma dalla terza pagina, affaticato dall’indigeribile avvocatese, ero direttamente passato all’ultima per firmarla. Ecco fatto! Ah, un attimo: era richiesta una firma aggiuntiva per gli articoli 7, 10, 11, 22, 42, 43, 51, 55, 64, 92, 97.
Da ingegnere ancora fatico a capire questa necessità: se uno accetta tutto, che senso ha chiedergli di ribadire il proprio consenso su articoli specifici? Significa che gli altri non si accettano? Mah, vai a capire gli avvocati… Per scrupolo, comunque, visto che si menzionava l’articolo 42, avevo deciso di rileggerlo, chissà mai ci avrei trovato la chiave definitiva “sulla vita, l’Universo e tutto quanto”.
E difatti non ero stato deluso: l’articolo, molto semplice, diceva che i futuri pellegrini marziani accettavano che al momento del lancio non fossero previsti piani per il ritorno sulla Terra, ma che negli anni successivi “si prevedeva che questi sarebbero stati studiati”. Al netto dei ghirigori legali, si poteva facilmente concludere che quella su Marte sarebbe stata una missione di sola andata.
Al momento la cosa mi aveva colto di sorpresa: “Sembra un suicidio. Siamo certi il progetto sia legale e possibile? Sicuri che abbia senso e sia etico?”.
Per fortuna non avevo mandato la mail e avevo ancora tempo per analizzare la cosa. Nel paio di giorni successivi ci avevo pensato a lungo, alternando l’intenzione di firmare, attratto dall’idea di partire e scoprire l’ignoto, e la voglia di cestinare tutto: in fondo la prospettiva di trovarmi prigioniero in un posto dove non avrei più voluto stare non era la più allettante del mondo.
Alla fine ero arrivato alla conclusione di non essere pronto per una missione suicida: insomma, morire su un altro pianeta non mi entusiasmava. Certo, sarebbe stato bello far parte del primo nucleo di umani a scendere sulla superficie di Marte. Avremmo anche svolto una serie di esperimenti e attività per capire, una volta per tutte, se sul pianeta ci fosse mai stata vita. E l’acqua? Era già sicuro ce ne fosse lassù, ma saremmo mai riusciti a usarla per sopravvivere o per produrre il carburante necessario al ritorno a casa? Troppe domande. Anche solo per poter pensare di prendere parte alla missione, la mia testa da ingegnere riteneva indispensabile un piano solido. Come potevano gli organizzatori immaginare di potersela cavare “sorvolando” questioni così basilari?
Poi, d’un tratto, sempre per la storia dei pensieri che ti si infilano inesorabili nei pertugi del cervello, non ero più riuscito a togliermi dalla mente che la prima missione umana su Marte sarebbe stata epocale, una delle più grandi imprese della storia, come la scoperta dell’America, del Far West, come l’arrivo al Polo Nord o la ricerca del passaggio in Antartide. Spedizioni che di certo erano state organizzate in ogni minimo dettaglio prima della partenza ed eseguite per filo e per segno, giusto?
Ero corso a documentarmi sulla storia delle grandi esplorazioni e i loro eroi: Cristoforo Colombo, Meriwether Lewis e William Clark, Ernest Shackelton, Roald Amundsen. L’unica cosa in comune fra loro era che sebbene tutti avessero provato a organizzarsi al meglio delle proprie conoscenze, nessuno era partito preparato a quello che sarebbe successo, nessuno era arrivato facilmente alla meta e quasi tutti, per raggiungerla, avevano pagato un prezzo personale alto, anzi altissimo.
Senza troppi giri di parole, la storia insegna che la via della scoperta non è mai lineare e passa attraverso strade e anfratti che una persona dotata di buon senso eviterebbe con tutte le forze.
Leggendo di queste grandi imprese, ero giunto alla conclusione che esplorare, spingersi dove nessuno è mai stato e fare una cosa che ai più sembra insensata, comporta difficoltà estreme perlopiù sconosciute. Insomma, esplorare non è come navigare su internet, oppure comprare un biglietto aereo di andata e ritorno magari con l’assicurazione di una coincidenza, o di vedersi rimborsati i bagagli in caso vengano smarriti. Esplorare è sfidare l’ignoto credendo in se stessi e in quello che si sta per fare, con la consapevolezza che non sia possibile pianificare tutto. Significa accettare quello che il destino avrà in serbo, ci piaccia o no. Per andare al nocciolo, esplorare vuol dire sognare una cosa impossibile e poi svegliarsi per farla, coscienti che molto probabilmente non ci riusciremo, anche se ce la metteremo tutta. Ma se ci riusciremo, sarà una grande vittoria personale, forse per tutta l’umanità.
Così, poche ore prima della scadenza, avevo spedito il documento aggiuntivo completo della doppia firma per gli articoli 7, 10, 11, 22, 42, 43, 51, 55, 64, 92, 97.
Come mi aspettavo, la strada non era stata facile: intendiamoci, buona parte dei 2700 candidati si era dimostrata “evanescente” e immagino non sia stato complesso per la commissione esaminatrice ridurre il numero a 100. Da lì in poi, però, il gioco si era fatto duro: test fisici, psicologici, attitudinali e tecnici si erano alternati rapidamente in una carambola continua di prove e controprove sempre più complesse. Come sempre, qualcuno aveva messo in campo politica e amicizie influenti, altri si erano presentati in un modo e comportati al contrario: una mano tesa, l’altra nascosta pronta a pugnalarti. Erano state fatte perfino simulazioni di isolamento e confinamento, in cui, a gruppi di dieci, eravamo stati rinchiusi per una settimana in piccoli appartamenti e sottoposti a stress tecnici e psicologici registrati, filmati, esaminati al microscopio come in un reality show.
Più di una volta mi era capitato di pensare di non essere fra i migliori o di non potercela fare. A denti stretti, però, ero arrivato in fondo e, con mia sorpresa, ce l’avevo fatta: ero stato selezionato come uno dei primi sette esseri umani destinati a Marte.
Devo ammettere che in tutti quei mesi di addestramento e selezioni, poco mi era importato del viaggio di sola andata, delle privazioni e dei problemi che avrei dovuto sopportare una volta arrivato. Volevo solo dimostrare a me stesso di essere all’altezza del compito e meritarmi di far parte della spedizione. E quando sotto la schiena si erano accesi i motori del razzo che ciavrebbero spinti prepotentemente fuori dall’atmosfera, mi erosentito libero, appagato, realizzato.
Il viaggio era stato lungo, più lungo di quanto mi aspettassi. Nulla che non fosse programmato, sia chiaro: avevamo abbastanza cibo, ossigeno, acqua e molte più certezze di arrivare di quelle che i nostri padri esploratori avevano ai loro tempi. Diversi mesi dopo eravamo finalmente atterrati (“ammartati” dovrei dire) senza problemi. Senza intoppi avevamo assemblato l’IMH e quasi subito avevamo trovato l’acqua per coltivare ortaggi e frutta che ci avrebbero nutriti. Sarebbe stato proprio il caso di dirlo: “Houston, non abbiamo problemi!”
Non ci era voluto molto, però, prima di scoprire qualcosa di cui sì, avremmo potuto lamentarci. Una cosa via via sempre più difficile da sopportare: su Marte non succedeva niente. Le giornate scorrevano monotone e tutte uguali. La vita quotidiana chiara, semplice, standard, super pianificata era piatta, ripetitiva, noiosa, tediosa. Sempre più spesso mi ero ritrovato a guardare fuori dagli oblò della base immaginando fosse uno dei fortini di Lewis e Clark, con la speranza che una banda di marziani si presentasse a reclamare il territorio che avevamo occupato.
A pensarci bene, il mio sonno aveva cominciato a ridursi da quel momento e io a svegliarmi prima che Sasha avesse modo di traghettarmi dolcemente ai primi compiti dell’ennesima giornata lavorativa.
Zzz… zzz…
Zzz.., zzz.. sento il ventilatore del sistema di mantenimento della vita martellarmi il cervello più forte che mai. Lì al buio, tornato a chiudere gli occhi, mi chiedo quando Sasha attiverà lo schermo del mio computer per augurami il buongiorno ed elencare le notizie più importanti. Probabilmente tra poco.
Probabilmente fra molto poc… Una sorpresa. La prima da mesi. Così potente da darmi un brivido: un tocco. Il contatto è leggerissimo, ma è impossibile non riconoscerlo: qualcosa o qualcuno mi sta sfiorando con delicatezza. E una voce leggera mi chiama per nome.
Riapro gli occhi e no, non vedo la mia mini cuccetta a milioni di chilometri da casa. Al suo posto c’è il soffitto della mia camera da letto. Alla mia destra mia moglie che mi parla con calma.
Cos’è successo? Dov’ero?
“Parlavi nel sonno”, mi dice Sasha, “probabilmente un sogno vivido, di quelli belli forti”.
Rimango immobile. Sorrido. Penso alla cuccetta e al fortino IMH. Sono grato fosse tutto un sogno.
Poi, di soprassalto tendo le orecchie: dov’è il ronzio del sistema di mantenimento della vita? Quello non può mica interrompersi…
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