Due giorni fa è stato l'ottavo anniversario della scomparsa di Neil Armstrong. Come evidente, ho aspettato a scriverne, indeciso su quanto fosse o non fosse opportuno sottolineare questa ricorrenza. Personalmente credo sia opportuno e lui lo meriti, ma sono pressoché sicuro che Armstrong non sarebbe stato interessato più di tanto.
Penso questo ricordando il giorno in cui ho avuto la fortuna di conoscerlo di persona, nel 1989, quando a Houston per le sue visite mediche annuali alla NASA, aveva trovato un’oretta per incontrare la nuova classe di astronauti, che eravamo noi. Eravamo tutti in fibrillazione: stava arrivando Armstrong per parlarci della Luna! Quando è entrato ci saremmo aspettati Dio; e invece… E invece è entrata una persona normale, direi “estremamente normale” se non fosse un ossimoro, uno che sembrava ci guardasse con ammirazione.
Si è seduto e ha cominciato a parlare del progetto X-15, quello a cui lavorava prima di impegnarsi nel "Volo spaziale umano" per la Nasa. X-15 era un programma cruciale per l’aviazione statunitense: portò a sondare le velocità ipersoniche (superate ai tempi dell'X1) e le altissime quote, sfide che risultarono assai complesse. Anche in quel caso, come per la missione sulla Luna, si trattava di sfidare l’impossibile. Ci sono voluti coraggio, molta intuizione, perseveranza – uniti ovviamente a tanta scienza e tecnica – per riuscire a superare frontiere che sembravano inviolabili. E Neil era molto orgoglioso di aver fatto parte di questa impresa, tanto che ce ne ha parlato per più di un’ora, raccontandoci anche che durante un volo, nel quale stabilì l’allora record di altezza per l’X-15, il veicolo era arrivato più in alto del previsto, troppo per riuscire a riportarlo sulla pista alla base Edwards, l’unico posto in cui l’X-15 potesse atterrare. L’unica soluzione possibile era quella di eiettarsi facendo attenzione a che il veicolo si schiantasse nel deserto. Ma lui, inventandosi lì per lì un’improbabile manovra tanto ingegnosa quanto azzardata, era riuscito a riportare l’X-15 a Edwards e ad atterrare indenne. Ne era sinceramente fiero. Ricordo ancora che a un certo punto si era preso una lunga pausa nel suo racconto e, con gli occhi che brillavano, si era messo a guardare verso l’alto, come se stesse rivedendo l’aereo rientrare alla base. Poi, tutto d'un tratto, si era accorto di aver trascorso con noi già quasi tutto il tempo disponibile e, scusandosi, aveva frettolosamente concluso: “Be', dopo il progetto X-15 ho lavorato a tempo pieno per il progetto del Volo spaziale umano e siamo andati sulla Luna. Avete domande?”
Il tempo rimasto era davvero poco e così le nostre domande (sebbene la curiosità, be', vi lascio immaginare). Ci aveva risposto di sapere bene di essere il primo uomo ad aver messo piede sulla Luna ma che, di fatto, in quel progetto lui era solo una rotellina. Un po’ come gli astronauti sono ancora oggi: rotelline di un ingranaggio decisamente più complesso, in cui il compito di ognuno è girare nel modo giusto, in sincronia con le altre rotelline. Insomma, Neil riteneva di non aver fatto alcunché di straordinario, ma solo ciò che il team gli aveva detto di fare affinché tutto andasse bene.
Per questo sono certo non fosse interessato più di tanto alle celebrazioni. Ma proprio per questo, anche se un po’ in ritardo, mi pare giusto celebrare l’umile grandezza di chi è consapevole del fatto che il proprio operato si misura attraverso il valore, e se volete il progresso, che porta agli altri. Nel caso di Neil, a tutti.
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